Nel campo dell’illustrazione di animali estinti, ci sono autori italiani che sono relativamente noti in patria e all’estero dagli appassionati. Tra questi, Emiliano Troco, Davide Bonadonna e Giovanni Caselli. Altri, invece, sono passati più in sordina. Uno di questi è Enrico Valenza, in realtà un illustratore poliedrico che spazia dal 3D al 2D, e ha disegnato un sacco di copertine di romanzi pe ragazzi (segnaliamo, data l’attinenza con questo sito, la serie Astrosauri e la copertina di Il cacciatore di ossa di Justin Richards). Ma Enrico Valenza ha realizzato nel corso degli anni anche diverse illustrazioni a tema mesozoico.
Cominciamo con Dinosauri (collana “Pillole di Scienza”, ed. “L’isola che non c’è”). Il libro presenta una piccola selezione di dinosauri divisi per era geologica, intervallati da illustrazioni a tutta pagina che mostrano ricostruzioni di ambienti mesozoici popolati da svariati animali in realtà né contemporanei né conterranei. È una sorta di tradizione dell’illustrazione italiana, questa, che si può far risalire fino alle illustrazioni di Stefano Maugeri degli anni ’90.
Iniziando dal Triassico, viene subito chiarito che ci troviamo davanti ad un libro dei primi anni 2000: non solo il Triassico è un rosso deserto desolato, ma quei Coelophysis attorno ad un ramo secco, quel Postosuchus che avanza minaccioso e quel branco di Plateosaurus fanno scattare nella testa la musica di Ben Bartlett, che chiunque sia stato piccolo in quegli anni ricorderà. Nell’illustrazione, però, sono presenti anche alcune new entry, da Teratosaurus (qui rappresentato come una specie di generico teropode, in realtà un rauisuco), ad Herrerasaurus, per finire con la chiazza di colore di Longisquama. Vent’anni dopo stiamo ancora cercando di capire cosa fosse, Longisquama.
Nel rosso del deserto triassico spiccava la livrea di Coelophysis, palesemente un omaggio all’iconica rappresentazione di Walking With Dinosaurs: pelle verde, nuca rossa e zampe calzate a righe bianche e nere. Eccetto che per alcuni dettagli come l’orientamento dei polsi rispetto all’avambraccio e la possibile presenza di piumaggio filamentoso, Coelophysis non è invecchiato come altri animali dall’inizio del 2000 ad oggi. L’illustrazione permette di ammirare la tecnica di Valenza, le livree composte da macchie frastagliate d’acquerello che ritroveremo in altre tavole.
Il Giurassico è forse l’illustrazione che più omaggia WWD: abbiamo in una posizione prominente Diplodocus (spunta), Allosaurus (spunta) e Stegosaurus (spunta). Fanno la loro comparsa anche componenti minori del cast come Brachiosaurus e Ornitholestes (con livree NON ispirate a WWD). Quest’ultimo ovviamente mostra ancora il corno nasale, da tempo decaduto come meme. Altro segno dell’età della pubblicazione sono gli unici tre animali non appartenenti alla formazione Morrison: un Rhaphorynchus piuttosto scheletrico che vola nel cielo (ma all’inizio del 2000 le conoscenze sulla reale anatomia degli pterosauri erano scarse) e un Archaeopteryx, nel tipico look “rettile con un costume da uccello” del secolo scorso: invece che correre dietro ad una libellula, qui sembra lanciarsi con intenti rapaci verso alcuni Megazostrodon. Questo genere, oltre a non essere conterraneo, non è neppure contemporaneo degli altri, dato che risale almeno all’inizio del Giurassico. Ma era uno delle pochi quasi-mammiferi mesozoici abbastanza famoso per figurare nei testi divulgativi.
Assieme alle illustrazioni a tutta pagina, ce ne sono altre – più piccole – che rappresentano “cladi”: impossibile usare un termine più specifico, perché il grado di parentela degli animali rappresentati varia. Questa che accompagna Allosaurus, ad esempio, potrebbe essere intitolata “Averostra”. In primo piano abbiamo Ceratosaurus, forse quello invecchiato meglio. Segue Eustreptospondylus, che invece rimanda palesemente a WWD: basta guardare il cranio corto e tozzo, mentre i resti di Megalosauroidea indicano una testa relativamente bassa e lunga. Nel documentario è essenzialmente un riciclo del modello di Allosaurus. Proprio come l’”allosauro polare”, un animale che andava molto in voga alla fine degli anni ‘90 in quanto allora uno dei pochi animali conosciuti dall’Australia (in realtà, è un astragalo di affinità incerta, forse Megaraptora). Forse per evitare l’effetto “copia e incolla” con Eustreptospondylus, Valenza l’ha rappresentato in maniera totalmente nuova rispetto a WWD, con un’innovativa cresta romboidale davanti agli occhi. In secondo piano abbiamo Afrovenator, altro Megalosauroidea, anche se questa ricostruzione è più simile come morfologia ad Allosaurus (seguendo un celebre montaggio). Poi viene Acrocanthosaurus, che, con una discreta fedeltà al primo cranio quasi completo di questo animale (descritto solo quell’anno), è un’altra illustrazione invecchiata abbastanza bene, tranne che per la sottile vela di pelle sulla schiena. Infine Allosaurus, in formato extra large per tutta la famiglia: i testi dell’epoca (e WWD) sbandieravano Allosaurus da 12 metri, ma in realtà nessun esemplare raggiunge una simile taglia se non alcuni resti attribuiti al genere Saurophaganax (da alcuni ritenuto Allosaurus), scarsamente studiati. Il cranio, tozzo come veniva rappresentato all’epoca, è un dito indice puntato verso WWD, con la sua mandibola sottile e le creste coniche sopra gli occhi (che l’Afrovenator di Valenza ha ereditato).
Brachiosaurus – o meglio, data la morfologia, piuttosto Giraffatitan – si innalza su due pagine. Valenza ha fatto un notevole lavoro con le ombre, che suggeriscono la circonferenza e la mole degli arti e del tronco del sauropode. Certo, forse c’è qualcosa che non torna circa le proporzioni dell’arto anteriore (l’autopodio, vale a dire la “mano”, sembra un po’ troppo allungata), ma per l’inizio del 2000 è una ricostruzione di tutto rispetto. E sì, le narici sono sulla sommità del capo, ma il paper di Witmer sarebbe stato pubblicato solo un anno dopo, e Valenza non poteva conoscere il futuro!
Nella splash page del Cretaceo, abbiamo gli omaggi a WWD che ormai abbiamo imparato ad aspettarci, nell’armatura di Ankylosaurus, nel cranio di Quetzalcoatlus e nel Tyrannosaurus che ruggisce in alto a destra e che richiama alla celebre scena della femmina di Tyrannosaurus che lancia il suo richiamo per attirare un compagno, una delle scene più iconiche dello show. Ma Valenza ha introdotto nell’illustrazione un ricco cast che ha poco da spartire con WWD, come Unenlagia e Caudipteryx piumati (tra le prime illustrazioni di dinosauri piumati in un libro prodotto in Italia, anche se Caudipteryx somiglia poco alla specie in questione). Da sottolineare la bellezza delle livree acquerellate di Lambeosaurus e Einiosaurus. Ho posseduto questo libro per anni prima di notare il Pachycephalosaurus, appollaiato sulle rocce in una maniera che ricorda più le iguane delle Galapagos che un dinosauro. Una visione senza dubbio particolare.
Impossibile non pensare, per chi li conosce, alla linea Beasts of the Mesozoic quando si guardano questi ceratopsi. Ovviamente nel 2000 non c’era neanche l’idea che potesse esistere qualcosa del genere, ma con i loro colori accesi questi dinosauri un po’ ricordano la strada seguita da Silva. Il fatto di essere in scala tra loro rende difficile apprezzare i più piccoli, con Psittacosaurus che quasi scomparirebbe se non fosse per la sua livrea. Ovviamente era ancora lontana la scoperta dei fossili eccezionali che ci avrebbero permesso di conoscere il tegumento e perfino i colori di questo animale. Va un filo meglio a Protoceratops (ed ha proporzioni corrette, non da ceratopside in miniatura!), ma è con Styracosaurus e Pachyrhinosaurus che iniziamo ad apprezzare il lavoro artistico di Valenza. Il cranio di Styracosaurus non è molto vicino ai fossili (credo abbia anche un epiparietale di troppo) e non è uno dei lavori migliori di questo libro (anche se la colorazione del corpo è piacevole!), mentre invece Pachyrhinosaurus ha una particolarità: la specie rappresentata è P. lakustai, che sarebbe stato descritto solo di lì ad otto anni. Il fossile, però, era venuto alla luce nel secolo scorso e probabilmente circolavano alcune immagini. Invece, sempre parlando per coppie, l’accesa livrea di Torosaurus (e guardate come sembra cheratinizzato il muso!) fa sembrare Triceratops sbiadito in confronto. Un errore comune all’epoca (e ancora oggi) è rappresentare Triceratops con la stazza di un esemplare adulto, ma il cranio di un subadulto, con gli epioccipitali non ancora riassorbiti e corna relativamente dritte.
Al contrario di Coelophysis, Parasaurolophus è cambiato abbastanza dal 2000 ad oggi: l’illustrazione di Valenza lo mostra in una livrea pezzata di blu e una cresta frastagliata che dalla nuca prosegue fino alla coda. In quegli anni la comprensione degli adrosauri era lontana dai livelli attuali. Il Parasaurolophus di oggi avrebbe un collo più spesso, senza la cresta di pelle e quell’incavo in mezzo al dorso (per inciso, è nella posizione sbagliata) e con i palmi delle mani che si fronteggiavano esattamente come per i teropodi. Ma, al di là del progresso scientifico, l’illustrazione presenta ancora oggi un animale reale e plausibile, con una muscolatura evidenziata dal gioco di ombre sotto la pelle bianca e le pieghe sul collo dovute alla tensione.
Se volete vedere altre immagini da questo libro, non vi resta che spulciare siti online o mercatini dell’usato. Noi invece ci vediamo tra due settimane con un altro libro illustrato da Enrico Valenza!